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Glori, Costa di Carpasio e Fontanili

Glori

“Benvenuti a Glori, paese di sole e di carrugi, acqua fresca e girasoli, tempi che furono e che saranno” - questo è il benvenuto che troverete una volta raggiunta la piccola frazione di Glori, a pochi chilometri dalla città metropolitana di Molini di Triora. Si fa per ridere, ovviamente.
La storia di questa minuscola frazione, che fino ad una decina di anni fa stava per morire a causa dello spopolamento, inizia, o meglio, ri-inizia nel 2015.
Fino agli anni ’50 del Novecento in questo borgo medievale vivevano circa 300 abitanti dediti alla coltivazione dell’ulivo e dei fagioli. Poi lo spopolamento a causa della mancanza di lavoro, le fasce abbandonate, i rovi, le frane, ridussero drasticamente quel numero, portandolo ad una quindicina di anziani, che salivano a poche unità ulteriori solamente d’estate con l’arrivo di qualche turista inglese o tedesco in possesso di una seconda casa.
Con il mutare del tempo, però, grazie ad alcuni giovani, si è andata instaurando una realtà che ha saputo divenire comunità seguendo i principi della resilienza e della sostenibilità, puntando il tutto e per tutto sull’ecologia. Un lento e cheto ripopolamento dovuto principalmente ad un appello lanciato nel 2015 via Facebook da Luca Papalia, originario di Riva Ligure e titolare di un’azienda agricola, che innamoratosi di Glori ha deciso di trasferirsi tra i suoi caruggi soleggiati.
Il progetto, intitolato “Glori the place to be”, ha attirato a se’ una trentina di persone, tra cui Sara e Vincenzo, milanese lei e campano lui, arrivati fin qui in fuga dalla città per ritrovare il sapore di una vita lenta e genuina.
Il fulcro nevralgico della frazione è senza ombra di dubbio il loro ristorante “L’Oste e La Strega”, nella piazzetta principale, che funge anche da bar e da panoramico punto di ritrovo. Ci fermeremo per il pranzo dopo aver completato il nostro giro ad anello.
La camminata inizia proprio alla scoperta del paese, facendoci immergere nell’alveo dei suoi carruggi, che qui vengono chiamati carrugi con una g sola; ad innalzarsi con il suo piccolo campanile, in piazza della chiesa, troviamo la chiesa intitolata alla Natività di Maria Santissima, risalente al 1707, attorniata da un loggiato in pietra, dove un paio di magazzini sono stati riadattati a “museo” di oggetti e manufatti relativi alla vita contadina d’un tempo.
Su alcuni muri vi sono appese delle lastre in ardesia nelle quali si possono leggere notizie e curiosità che interessano la storia del borgo, aneddoti e aforismi che ben ci fanno cogliere lo spirito dei suoi abitanti. Di tanto in tanto ci attraversa la strada qualche gatto in cerca di coccole. Oltrepassata la piazzetta della chiesa attraverso un portico sormontato dalla scritta “Nullus Locus Sine Genio” e poi ancora l’oratorio intitolato a Sant’Antonio Abate, con il suo antico architrave nel quale è riportato l’anno relativo alla sua ristrutturazione in stile barocco, ovvero il 1632, ci apprestiamo ad uscire dalla borgata principale di Glori.
Ma fermiamoci un secondo sulla scritta appena letta, ovvero “nessun luogo è senza Genio”: così scriveva nel suo commento all’Eneide Servio, relatore latino vissuto tra il IV e il V sec. d.C. Egli faceva riferimento ad un concetto che per i suoi contemporanei era scontato, ovvero quello del “Genius loci”, che si potrebbe tradurre nello spirito del luogo a cui si sta facendo riferimento. Il “genio” quindi lo si poteva trovare sia nell’animo di ogni persona, che in quello di qualunque luogo, che fosse un monte, un bosco, un fiume o una città. In questo modo, si riconosceva ai luoghi una condizione del tutto analoga a quella degli esseri umani: essi quindi dovevano essere rispettati, amati e valorizzati come delle vere e proprie divinità, diventando personificazioni degli elementi naturali. Forse, pensiamo noi, l’emblema dello spirito guida alla base del progetto “the place to be” e del suo ripopolamento è pienamente riassunto con quest’unica frase. Tornando all’itinerario, in breve ci troviamo fuori dal paese e la vista torna ad aprirsi sull’intera valle Argentina. Alla nostra sinistra continua ad insistere, ancora per poco, una compagine di case, rustici e magazzini in pietra. Sulla destra invece, appena sotto il sentiero, negli orti un tempo abbandonati e faticosamente recuperati dai nuovi abitanti, possiamo notare antiche coltivazioni, come lo zafferano, la lavanda e la muneghetta, una particolare pianta di fagiolo tipica di questa zona. Per l’attività agricola assume particolare rilevanza l’abbondante presenza di acqua, utilizzata per alimentare il sistema irriguo per i campi, seguendo una tecnica d’innaffio ormai desueta; il sistema detto “per allagamento” consiste, letteralmente, nell’allagare il campo attraverso l’apertura di appositi chiusini.
Proseguendo oltre incontriamo in successione due ponticelli che dovremo attraversare per superare delle cascatelle, raggiungendo in pochi minuti il bellissimo santuario intitolato alla Madonna di Lourdes, del quale vi rimandiamo a lato per qualche informazione ulteriore.
Aggirato l’abside sulla sinistra, passando al di sotto di un arco in pietra, continuiamo la trekkinata inoltrandoci nel bosco più autentico.
Per mezzo di continui saliscendi, intersecando un paio di scogli prominenti con affaccio diretto sulla Valle Argentina (il primo) e la Valle Carpasina (il secondo), raggiungiamo località Colla Piana, ai piedi del Monte Colletto (740 mt slm), dove ignoriamo la deviazione per l’abitato di Montalto Ligure e proseguiamo tenendo la sinistra. Dopo circa 600 metri si raggiunge un punto di sosta conosciuto come “Ciazza da Carbuneia” o “Piazza della Carbonaira” dove troviamo un tavolo con due panche da picnic. Qui la via si apre verso nord-est, dove un tempo vi si trovavano le campagne del Tuvetto e delle Ciazzine coltivate a grano ed orzo.
La numerosa presenza di casolari in pietra ormai diroccati ci fa comprendere molto bene come questeattività agricole siano state il sussidio principale dell’economia contadina delle valli che stiamo attraversando. Com’è testimone gran parte del territorio ligure, addomesticare il terreno non è mai stata cosa facile, perciò lunghi muri a secco modellano in modo magistrale gli appezzamenti, suddividendoli in fasce, e restano custodi silenziosi di quell’epoca passata.
Un lungo muro in pietra di circa 300 metri lineari, interrotto solamente da alcuni piccoli cedimenti strutturali, è un vero e proprio inno all’architettura contadina. Davanti ad esso e sulla nostra destra si possono ancora vedere i resti di un vecchio forno a calce.
Il colore delle rocce presenti in questa zona fa dedurre la ricchezza di sedimenti di argillite, probabilmente utilizzata già in tempi preistorici come pietra da lavoro.
Proseguendo oltre, il sentiero si trasforma in una lastricata che, con leggera e costante salita, ci porta nei pressi del Santuario della Natività di Maria Vergine risalente al 1669 anche conosciuto come "Madonna di Ciazzime" per via della località nella quale si trova. Continuando sulla destra, si può arrivare in una decina di minuti a Carpasio, seguendo un’originalissima via crucis dove le icone delle stazioni sono eseguite in terracotta da un’artista locale. Noi però non ci dilungheremo fino all’abitato, ma proseguiremo il cammino risalendo il fianco sinistro del Pizzo dei Grossi per la via del Passo Caranche. A questo punto la salita si fa sentire per davvero, affrontando un dislivello positivo di circa 350 metri distribuiti su una pendenza del 15%.
La mulattiera sale ripida in mezzo ai castagni e ai roveri, ma riusciamo a trovare anche numerosi pini marittimi che ci danno l’impressione di essere degli estranei che si sono trovati da queste parti un po’ per caso. Lungo questa via correva il confine che divideva il territorio della Repubblica di Genova, riconducibile alla podesteria di Triora, da quello dei Savoia appartenente al Marchesato del Maro. Queste frontiere richiedevano di essere marcate in modo evidente tramite la realizzazione di una vera e propria rete confinaria con l’utilizzo dei termini, che in queste località consistevano in lastre di pietra di modeste dimensioni, conficcate verticalmente nel terreno; fateci caso, se ne possono trovare ancora moltissime. La nostra salita è segnata dal sentiero che serpeggia per i terrazzamenti e, complice una segnaletica sbiadita (di colore blu) non è così immediato trovare sempre la traccia corretta. Quindi attenzione a non farvi trarre in inganno dall’andamento lineare dei muretti a secco, seguite la nostra traccia presente sul sito web! Il punto sommitale di quest’ascesa è riconducibile al bivio che conduce alla Rocca Castè, una deviazione di circa quaranta minuti, andata e ritorno, che porta allo sperone di roccia sul quale si è ipotizzato potesse esistere una una sorta di roccaforte difensiva eretta da tribù locali di agricoltori e pastori nell’epoca preromana, come attesterebbe il rinvenimento di resti di un castellaro con fini prevalentemente difensivi. Ignorata la deviazione, seguiamo il segnavia indicante Glori e iniziamo la discesa, lunga e ripida, fino a raggiungere l’abitato di Fontanili, costituito sommariamente da un pugno di case piacevolmente ristrutturate. Scesa una mulattiera, con gradini e lastre in pietra, continuiamo la camminata seguendo il gorgoglio delle acque che ci terrà compagnia fino alla fine dell’anello; in fin dei conti la frazione di Fontanili prende il proprio nome dalle numerose vasche irrigue sparse per il territorio realizzate per mano dell’uomo. In molti punti infatti gli uomini hanno costruito nel tempo piccoli sbarramenti, pozze e vasconi in pietra per canalizzare sia le acque superficiali sia quelle sotterranee al fine di potersene servire per irrigare i campi.
Dal piccolo ponte in pietra dovremo seguire le indicazioni per Glori Paese/Santuario, lungo il corso del torrente, incontrando più volte bellissimi salti d’acqua. Raggiunto il ponte di Rio Fontanili, incontrato già all’andata, ripercorriamo la stessa via che riporta in paese dove, come promesso, ci fermeremo a pranzare presso l’Oste e la Strega.

Route in Zahlen

h 3:45

Reise

10,30 Km

Streckendauer

550 mt

Höhenunterschied

Galeriepfad

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